Intervista a Enrico Sgarro, preparatore Keeplay Professional Soccer School

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La solitudine dei portieri, mai luogo comune è stato più sbagliato. Ce lo insegna Fabrizio Capodici, portiere per vocazione e allenatore per mestiere, che con la sua scuola individuale Keeplay chiama a raccolta tutti i giocatori che vogliono perfezionare il proprio gioco: un occhio di riguardo, vista anche la sua storia, è riservato ovviamente ai numeri uno.

Infatti, Capodici non solo ha fatto tutto il percorso nelle giovanili della Juventus, ma ha vestito i colori bianconeri anche come tecnico: un passaggio importante in una carriera da tecnico che lo ha spinto fino alla Cina. Una terra lontana, con costumi e tradizioni così diverse dalle nostre che, forse, è meglio non andarci da soli. Così, Fabrizio non ci ha pensato due volte e, alla ricerca di un collaboratore, aveva già il nome pronto in agenda: Enrico Sgarro. Un altro numero uno, che ha appeso i guanti al chiodo, ma che per i portieri ora spende le sue giornate: patentino Uefa C, attestato Aiac, Sgarro è in costante aggiornamento, sempre curioso di nuove avventure. In Cina, ma anche a Torino, come preparatore proprio della Keeplay.

Ciao Enrico. Prima di iniziare, ti manca la Cina?
Tantissimo, tornerei subito. Guarda (e indica un tatuaggio, con la data della sua partenza per l’Oriente, ndr). È un’esperienza che mi ha trasmesso molto, una nuova cultura, un mondo completamente diverso rispetto a quello che ero abituato a vivere. Poi in Cina hanno, come in Qatar e negli Emirati Arabi, un rispetto verso il ruolo del portiere quasi filosofico.

Parli dell’obbligo di utilizzare solo portieri cinesi?
Sì, il motivo che c’è dietro è qualcosa di veramente particolare. Per loro, la porta rappresenta una sorta di porta di casa, per questo vogliono che sia solo un cinese a poterla difendere.

È un aspetto molto suggestivo. Ma d’altronde, anche nella nostra cultura il portiere è sempre stato un ruolo alquanto particolare, non trovi?
Sicuramente. Sia sotto l’aspetto tecnico, che comportamentale. Il portiere è sempre stato un personaggio all’interno dello spogliatoio.

Tecnicamente, fa quasi un altro sport?
Sì, la preparazione di un portiere non ha nulla a che vedere con quella degli altri calciatori. Anche se tatticamente, ad oggi, il portiere è inserito nel contesto di squadra, fa comunque dei movimenti unici sul campo. Che solo lui fa. Per questo serve una preparazione specifica.

Infatti, immagino che per essere un buon allenatore, sia imprescindibile aver fatto il portiere.
Certamente, non conta tanto il livello in cui si è giocato, ma bisogna aver vissuto sulla propria pelle alcuni aspetti. Dal tuffo alla presa, fino al posizionamento, sono parti della tecnica di un portiere che si imparano solo allenandosi.

Per questo ci sono le scuole di perfezionamento, come la Keeplay?
Ovviamente. Devo essere sincero, ma quando ero più giovane non ero molto convinto delle scuole individuali. Pensavo fosse una perdita di tempo. Crescendo, però, ho capito la loro importanza. Sono come le ripetizioni di matematica o italiano. Se non sai fare una cosa, il meglio che può esserci per migliorarsi è la “ripetizione”: quindi, mettersi lì e fare e rifare qualcosa finché non diventi automatismo. E il nostro lavoro, come tecnici, è proprio quello. Per noi non esiste nessuna logica di squadra, all’interno della Keeplay. Perché il nostro obiettivo è solo il miglioramento del ragazzo, sia sotto l’aspetto tecnico sia sotto quello mentale.

Interessante. In che senso l’aspetto mentale?
Non possiamo non considerare anche la testa, siamo persone d’altronde. A volte capita che un calo nelle prestazioni, o un blocco nell’apprendimento di un movimento, siano derivati da questioni extra-calcistiche. Vale per un ragazzo che gioca alla Juventus come per un coetaneo che invece si trova in una dilettantistica. La scuola, la ragazza, gli amici, sono tutti aspetti importanti che un allenatore deve tenere in considerazione. In una squadra di venticinque ragazzi, può capitare che i problemi di uno si disperdano nel gruppo: per questo serve lavorare su di sé, accanto a persone qualificate che ti aiutano. Può essere un allenamento extra utile per tutti: per chi è forte e vuole diventare fortissimo, ma anche per chi è meno bravo ma non vuole comunque perdersi il divertimento di giocare.

Anche perché, per un portiere, la pressione è forse maggiore. Giusto?
Un errore banale, se fatto da un portiere, può costare più caro che tutti gli altri messi insieme durante una partita. La pressione però, si allena. Con la tecnica, innanzitutto. Come detto, se ti alleni e perfezioni gli aspetti in cui ti senti più insicuro, allora riduci anche gli errori. Perché non ti viene il dubbio, quello di non saperlo fare o di non riuscirci. È tutta una questione di esercizio. Se non sai calciare con il piede debole, sarai sempre insicuro ogni volta che sei costretto a farlo. Per questo, bisogna mettersi contro un muro e calciare, calciare fino a che non s’impara.

Non basta questo, immagino.
No, per questo ci sono (o ci dovrebbero essere) figure preparate che ti spiegano come farlo al meglio. Altrimenti, rischia di essere controproducente. Però, la logica della fatica e dell’impegno, quella deve valere a prescindere. E da entrambe le parti, dal giocatore e dall’allenatore. Io, quando ho capito che giocare non faceva proprio per me, ma non volevo perdere il calcio nella mia vita, ho cominciato a studiare. Ho fatto corsi di perfezionamento, attestati, insomma, ma tutto con passione. Quella è fondamentale per trovare la voglia anche quando, può succedere, manca.